XIII EDIZIONE

Wrocław, 31 Marzo – 5 Aprile 2009

XIII PREMIO EUROPA PER IL TEATRO

Le manifestazioni della XIII edizione del Premio Europa per il Teatro e dell’XI edizione del Premio Europa Realtà Teatrali si sono svolte a Wrocław, in Polonia, in occasione delle celebrazioni organizzate in onore di Grotowski sotto gli auspici ed il sostegno del Ministero della Cultura polacco e della Città e del Sindaco di Wrocław.

Il conferimento del XIII Premio Europa per il Teatro a Krystian Lupa ha premiato un maestro del teatro d’arte, un punto di riferimento per la scena internazionale contemporanea. L’omaggio al premiato ha previsto un convegno di studio con le testimonianze di critici, studiosi di teatro e collaboratori del regista polacco e tre rappresentazioni: Factory 2, una produzione ispirata ad Andy Warhol ed ai personaggi della sua “Silver Factory” che hanno contribuito a crearne il mito. Le Presidentesse, da un romanzo di Werner Schwab, descrive la vita di tre donne del ceto popolare succubi del bigottismo religioso, di un lavoro umiliante e della televisione come unico diversivo di un’esistenza sempre uguale a se stessa. Lupa ha anche presentato in anteprima mondiale Persona: Marilyn, prima parte di una trilogia ispirata a Marilyn Monroe, Simone Weil e Gurdjieff. Inoltre durante la manifestazione si è svolta la proiezione del film Kalkwerk, che ha riproposto la messa in scena di uno dei più grandi successi teatrali di Lupa.
Per quanto riguarda il Premio Europa Realtà Teatrali, la Giuria ha deciso di conferire il premio a: Guy Cassiers (Belgio); Pippo Delbono (Italia); Rodrigo Garcia (Argentina/Spagna); Árpád Schilling (Ungheria); François Tanguy e il Théâtre du Radeau (Francia).
I cinque vincitori dell’XI Premio Europa Realtà Teatrali hanno offerto al pubblico un ricco programma dei loro spettacoli di repertorio più rappresentativi, di creazioni speciali per il Premio Europa per il Teatro, di conferenze di studio sulla loro opera e di incontri con la stampa ed il pubblico durante le quali i premiati hanno parlato del loro approccio al teatro e dei loro progetti futuri. Guy Cassiers ha portato in scena Rouge Décanté da un romanzo di Jeroen Brouwers, un monologo incentrato sull’elegia in memoria della madre del protagonista, che aveva condiviso con il figlio l’esperienza dell’internamento in un campo di prigionia giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, durante le giornate del Premio, è stato possibile visitare l’installazione Phalanx, nata dalla collaborazione tra Guy Cassiers ed il video artista Kurt d’Haeseleer: un’installazione artistica sul potere della politica, dei media e il potere/impotenza dell’arte, ispirata alla trilogia teatrale di Cassiers Trittico del potere. Pippo Delbono ha presentato tre spettacoli: Il tempo degli assassini è un viaggio “on the road” che racconta in maniera semi-autobiografica la vita del regista italiano e di Pepe Robledo, co-protagonista in scena; Questo buio feroce è uno spettacolo tratto dal diario dello scrittore americano Harold Broadkey, che parte dalla riflessione sulla malattia, il dolore e la morte e si trasforma in un inno alla vita. Alla fine dell’incontro a lui dedicato, Delbono ha presentato Storia di un viaggio teatrale nei luoghi sconosciuti tra rabbia e amore, solitudine ed incontro, costrizione e libertà, creazione speciale per il Premio Europa per il Teatro con la partecipazione, tra gli altri, dell’attrice Marisa Berenson. Rodrigo García ha portato in scena tre spettacoli: Accidents. Matar para comer è uno spettacolo che parla degli ultimi momenti di vita, e che tenta di rappresentare l’agonia del naturale; in Arrojad mis cenizas sobre Mickey, García usa il palcoscenico come un grande recipiente al fine di far riflettere il pubblico su temi controversi ma di grande attualità; alla fine del meeting a lui dedicato, García ha presentato El Perro, creazione speciale per il Premio Europa per il Teatro con la partecipazione di un gruppo di giovani attori polacchi. Árpád Schilling ha presentato e commentato al pubblico Elogio dell’Escapologista, la sua ultima creazione. François Tanguy con il Théâtre du Radeau ha presentato Ricercar, uno spettacolo storico del suo repertorio. All’interno delle manifestazioni del Premio è stata dedicata una sezione al Paese ospite, “Sguardo sulla Polonia”, che ha accolto alcuni importanti contributi quali: la mostra fotografica di Maurizio Buscarino su Grotowski, “Apocalypsis cum Figuris”, il Colloquium “Recitare prima e dopo Grotowski” (in collaborazione con l’Association Internationale des Critiques de Théâtre) e la presentazione del libro fotografico su Krystian Lupa, “Lupa/Teatr”. Sono stati presentati Mozart Writes Letters, una performance di marionette, Lincz da Yukio Mishima, e il libro “Theatre and humanism in a world of violence” di Ian Herbert e Kalina Stefanova, che raccoglie gli atti del XXIV Congresso mondiale dell’AICT. La manifestazione si è conclusa come di consueto con la cerimonia ufficiale di consegna dei premi, per l’occasione trasmessa in diretta dalla televisione polacca.

Krystian Lupa

Motivazione

Krystian Lupa (nato nel 1943) occupa un posto speciale, unico ed esemplare, nella drammaturgia attuale. Il posto di un regista che appartiene a quello che, con un termine nobile e preciso, si definisce teatro d’arte. Ma un teatro d’arte che questo regista più che regista ha reso diverso dall’accezione corrente. Lupa non propone un universo d’autore come Kantor o Wilson, ma non si accontenta nemmeno di essere un interprete, per quanto brillante, della letteratura drammatica, contemporanea o classica. Il teatro di Lupa reca il marchio di una tradizione culturale propria dell’Europa centrale, che lui rivendica e valorizza al punto da elevarla a visione del mondo. Un teatro in cui i romanzi, da Dostoevskij a Musil o Bernhardt, si incarnano senza per questo perdere la dimensione epica e lo spessore umano. Un teatro dell’“estinzione” inevitabile accompagnata da sussulti umani e da una costellazione di parole destinate a illuminare comportamenti, interrogare destini, legittimare omicidi o spiegare passioni. Lupa rivisita i romanzi rispettandone la ricchezza, convinto che si debbano intraprendere i sentieri infiniti delle parole per spiegare gli atti, che bisogna dare fiducia alle parole e ai personaggi nel loro sforzo di avvicinarsi all’essenza dell’essere in preda al disorientamento più estremo. Per Lupa, il romanzo è un’esperienza alla quale il teatro si vota per un bisogno di spiegazione e un piacere della sfida. “Mettersi alla prova del romanzo”, questa invenzione europea, come diceva Kundera: ecco il test a cui Lupa e la sua arte si sottopongono. Non tanto per “raccontare”, ma piuttosto per “perdersi” e trascinare lo spettatore in quel labirinto notturno da cui non uscirà indenne. Avventura sottile, spedizione pericolosa, marcia verso l’ignoto. Lupa non cerca di chiarire e nemmeno di oscurare; egli annette il romanzo alla scena in nome di un’irresistibile esigenza di esplorazione, di lenta avanzata verso la parte “maledetta” dell’essere, parte proibita di socialità e scambio. Con lui si penetra nella “selva oscura”. Se il teatro di Lupa si compie soprattutto attraverso l’incontro con i romanzi, lo si deve anche alla qualità eccezionale del gioco che il maestro polacco riesce a creare. Il suo attore emblematico, Piotr Skiba, dà prova di questa penetrazione nella parte più profonda dell’essere senza ostentare una tecnica o un impegno ideologico, come un individuo solo di fronte a comportamenti straordinari di cui tenta e riesce a rendere la complessità. L’attore di Lupa seduce nella misura in cui suscita negli spettatori la sensazione di sposare il percorso della scrittura, di essere il doppio visibile dello scrittore.
È per questo che la scena riesce a diventare il doppio materiale della pagina: esse si riflettono e si riconoscono per la gioia di coloro che, in sala, assistono a questo eccezionale gioco di rimandi. Lupa non mette in scena i romanzi, li riscrive sul palcoscenico. In quanto regista legato a ciò che si definisce “teatro d’arte”, Lupa conferma la passione per le parole e l’attenzione per gli attori. Sono loro a costituire il suo principale nucleo di interesse. Lupa è tuttavia consapevole che il suo approccio esige un’altra temporalità, distante dai ritmi contemporanei la cui precipitazione non può che essere estranea a questi vagabondaggi dell’essere, a questa confusione di sentimenti e smarrimento delle idee. Per ritrovarsi bisogna perdersi… e ciò richiede tempo. Non il tempo dilatato del teatro di Wilson, ma il tempo analitico di Musil. Sapersi fermare, respirare, riprendere, tornare, camminare – tutti verbi che le spedizioni “romanzesche” di Lupa attivano nella mente degli spettatori invitati a seguirle. Formatosi all’Accademia delle Belle arti di Cracovia, esperto di cinema, Lupa resta distante da queste acquisizioni della prima giovinezza e cerca di nutrire il palcoscenico delle sue risorse, di quei residui del teatro che lui recupera e ricicla sfuggendo alla seduzione del bello e restando ugualmente refrattario all’aggressione sovversiva del brutto. Il suo percorso è un altro. Se Kantor si vantava di lavorare con “la realtà del rango più basso”, Lupa, dal canto suo, si riappropria della “realtà teatrale del rango più basso”: porte o finestre sbiadite e malferme ritrovate nel magazzino delle attrezzerie di scena. Esse reintegrano il palcoscenico come i resti delle rappresentazioni con cui l’autore si impegna a costruire un’altra vita. Lo sguardo che portiamo sulla scena di Lupa è affine all’ascolto dello psicanalista che individua i frammenti del passato a partire dai quali il paziente cerca di ricostruirsi. Lupa non si richiama, come tanti altri registi attuali, all’universo delle ripetizioni, alla sua miseria o alle sue gioie. No, in lui tutto è scritto, stabilito, fissato, come nella scrittura di Musil o Bernhardt. Salvo che per i suoi racconti, Lupa riutilizza ciò che è già servito, senza scadere per questo nella nostalgia di un teatro defunto. Questi frammenti di vecchi spettacoli che sembrano far ritorno possiedono, d’altro canto, un’incertezza connaturata poiché non rimandano soltanto al teatro ma possono venire anche dalla vita, da appartamenti demoliti, case abbandonate o quartieri devastati. Questi “resti” posti sotto il segno di un secondo utilizzo, second hand, hanno l’ambiguità di un entre deux, di un teatro e di una vita che hanno già avuto luogo. Essi hanno un duplice passato. Queste porte graffiate, queste finestre sbilenche, questi muri sbiaditi, questi arredi rimediati qua e là, dicono tutti la stessa cosa: sono serviti, come le parole dei romanzi che abbiamo letto. Non è tutto da inventare, dunque, ma tutto da ri-vivere. Così Lupa dispensa la sua filosofia di uomo di teatro per cui l’antico – nella sua espressione più modesta quale l’avanzo di una scena o più nobile quale il testo di un romanzo – funge da stimolo alla conoscenza o, ancor meglio, al riconoscimento di sé.
È questo, al di là di tutti i dettagli e i colori, il senso di un’opera.

XI Premio Europa Realtà Teatrali

Guy Cassiers

Motivazione

(BELGIO) Guy Cassiers, nato nel 1960, si è rapidamente imposto sulla scena europea, confermando così l’importanza acquisita nel panorama teatrale fiammingo. Come tanti artisti contemporanei, Cassiers ha alle spalle un percorso atipico: intraprende infatti la strada del teatro dopo aver compiuto studi grafici e aver organizzato “eventi” che mescolano le arti associando professionisti e dilettanti. Fin da subito manifesta interesse per la fusione dei mezzi e degli artisti e invoca la ricchezza composita che caratterizza molte delle pratiche eterogenee coltivate dal “teatro postdrammatico” secondo H.T. Lehmann. Agli esordi, si confronterà per caso con le esigenze del teatro rivolto a un pubblico giovane senza per questo rassegnarsi a elaborare un’estetica personale, adattata alle sue necessità specifiche. Cassiers ama i percorsi trasversali, si dedica con piacere a lavori di “missaggio” delle arti, annulla i confini e si ritrova nel dinamismo del movimento “tra”. Sempre “tra”, mai focalizzato, sempre “disperso”, mai centrato… In questo senso i suoi spettacoli colgono una certa tendenza della modernità allo spostamento permanente, al rifiuto della stabilità, alla ricerca priva di ordine e gerarchia. Nonostante ciò, il teatro di Cassiers non è un teatro dello smarrimento o della perdita, ma piuttosto un’esplorazione diversificata in nome di un certo rapporto con il mondo e i valori che lo organizzano. La diversità è la strada da percorrere e non la meta da raggiungere. Essa si accompagna a una particolare leggerezza, a una straordinaria facilità di circolazione, al passaggio quasi musicale da un medium a un altro, o dal corpo presente all’immagine proiettata. Cassiers non si rifà all’estetica del brutto e del palcoscenico intasato dalla materia, ma preserva il teatro dagli eccessi stereotipati per trattarlo come luogo di riflessione sul mondo e sulle sue sregolatezze. Nel 1995, si cimenta con una delle pièce più discusse dell’epoca, Angels in America di Tony Kushner, imponendosi definitivamente all’attenzione del pubblico. Da subito coltiva il dialogo delle arti in movimento, ripreso, declinato e mai immobile. Grazie a questo, realizza uno degli adattamenti scenici senz’altro più riusciti di Dalla parte di Swann e Albertine (2002-2004), ritrovando la fluidità della scrittura proustiana e al tempo stesso confrontandosi con la questione della memoria, alla quale il suo teatro presterà particolare attenzione. Come nel suo capolavoro Rouge décanté (2004), ispirato a un noto romanzo in cui il protagonista, interpretato dal suo attore preferito, Dirk Roofthooft, non riesce a superare il trauma di un’infanzia trascorsa in un campo di prigionia giapponese per cittadini olandesi. Cassiers conferma l’interesse per il rapporto tra l’essere e la storia, senza manicheismo né illusioni, nell’ormai celebre Trilogie du pouvoir (2006-2007). In collaborazione con Tom Lanoye, analizza inizialmente i rapporti della gente di teatro con il potere nazista nello spettacolo Méphisto for ever, un adattamento del romanzo di Klaus Mann che Ariane Mnouchkine mise in scena per la prima volta trent’anni fa. Ma la questione persiste. La seconda parte della trilogia, Wolfskers, ispirata ai film del cineasta russo Sokurov, fa incontrare i padroni del mondo che, a modo loro, decidono delle sue sorti: Lenin, Hitler e l’imperatore Hirohito. Infine, Tom Lanoye firma un testo di grande valore, Atropa. La Vengeance de la paix che, ispirato al motivo della guerra di Troia, si interroga sulla questione dei conflitti, del sacrificio, delle donne votate alla morte e degli uomini che la decidono. Guy Cassiers prosegue la sua ricerca immaginando un periplo ludico intitolato Une histoire du monde en 10 chapitres et demi o preparando un’opera contemporanea con Kris Defoort, House of the sleeping beauties. Il fascino del teatro di Cassiers risiede nella combinazione di un linguaggio scenico sofisticato e una posizione politica particolarmente complessa, entrambi posti su un piano di parità mai smentito.

Pippo Delbono

Motivazione

(ITALIA) Poeta della marginalità e della differenza, Pippo Delbono, oggi alla vigilia dei cinquant’anni, da sempre fa dell’incontro con l’arte un’esperienza fondamentale per sopravvivere alla disperazione. È arrivato alle scene frequentando varie scuole specializzate, inseguendo il modello inquieto di un girovago come Rimbaud, e nella fase di studio ha incontrato l’argentino Pepe Robledo, destinato a diventare un suo doppio nella lunga avventura teatrale, iniziata con un viaggio insieme a Holstebro ad apprendere il training con Iben Nagel Rasmussen, mentre nell’87 maturava il loro primo spettacolo a due, Il tempo degli assassini, sempre rimasto in repertorio, visionato in fase di prova da Pina Bausch a Wuppertal. Quindi Delbono propone l’Enrico V di Shakespeare in un adattamento destinato a essere ripreso nei decenni in vari paesi con innesti di giovani del posto e, spinto da Laura Betti, monta La rabbia di Pasolini. Artista dell’estremo, capace di una vitalità strabordante, Pippo resta contagiato dall’aids che combatte pure con l’aiuto del buddismo, mentre non smette di raccogliere i suoi compagni di lavoro tra i disagiati, per le strade, e scopre in un manicomio la sua star, alias Bobò, rinchiuso da 45 anni, sordomuto, microcefalo, analfabeta, quindi di fatto isolato, esprimendosi con suoni acuti da gabbiano, ma in grado di imporre sulla scena la sua fisicità recitando anche scene di Beckett in Barboni, opera-manifesto del gruppo che esplode nell’estate ’97, esibendo una accolita di casi umani intenti a scoprire la loro capacità di comunicare dando luce al mistero della vita. La rottura degli schemi evolve un anno dopo con Guerra, esprimendo il bisogno di rappresentare la vita che può nascere dalla diversità con nuovi adepti presi dalla strada in uno spettacolo che parte da una frase del Che e avvicina brani di Budda all’Ecclesiaste, mentre diversi e normali si scontrano nel segno del mistero di una vita che nasce dalla marginalità e dalla malattia ma sa esprimersi anche con la danza e il canto: e non a caso compirà una tournée emozionante in Palestina e nel teatro arabo di Gerusalemme con visita ad Arafat a Ramallah. Da allora le tournée della Compagnia Delbono si moltiplicano in tutto il mondo da Il silenzio su Oscar Wilde a L’urlo, da Gente di plastica con brani di Sarah Kane, dal bianco assoluto di Questo buio feroce sul problema dell’aids da Harold Brodkey, alla denuncia quasi senza parole della morte sul lavoro de La Menzogna, continuando con mezzi espressivi sempre più avanzati un viaggio nel dolore dell’esistenza condotto dagli esclusi.

Rodrigo García

Motivazione

(ARGENTINA/SPAGNA) Nato nel 1964, Rodrigo García ha lavorato inizialmente in Argentina e da qualche anno è tornato in Spagna, suo paese di origine. Ha fondato la compagnia La Carniceria teatro, il cui nome fa riferimento tanto alla “macelleria” del padre quanto al suo approccio personale che si cimenta con “la carne” e “il sangue” della società moderna. Anche lui “écrivain de plateau”, secondo la definizione di Bruno Tackels, García vuole dominare tutte le risorse della scena ed elabora parallelamente scrittura, messa in scena e scenografia in un gesto che non cerca di essere “totale” e unificante, ma piuttosto “concreto”, esplicitamente critico e privo del minimo compiacimento. García invoca un teatro esplicito, che diffidi della sfumatura e del commento per mettere totalmente in discussione il mondo capitalista nella sua materialità. Il suo desiderio mai pago di affermare l’orrore del mondo non si esprime attraverso perifrasi, ma con l’aggressività dell’opposizione diretta, materiale e concreta. Rivelatosi alla scena europea nei primi anni 2000 nonostante un percorso originale intrapreso già da dieci anni, García si concentra sui processi di alienazione attuati dalla società dei consumi che finisce per rendere prigionieri gli esseri modesti presi nella rete delle sue molteplici strategie. García non parla, non commenta, ma mostra i meccanismi di questa alienazione praticando l’iperbole e l’eccesso. Il suo impegno non si basa su un discorso, ma sulla materialità esclusiva ed eccessiva dei prodotti di consumo di cui denuncia il potere straordinario e perverso. Il teatro del concreto di García si dissocia dal riferimento realistico a vantaggio della metafora fisica, metafora esposta e fornita agli spettatori nella sua espressione ributtante e angosciosa. Qui non esiste sollievo né analisi; nessuno è al di sopra di ciò che il palco denuncia come lo scandalo della società moderna: senza esprimere alcuna superiorità “ideologica”, il regista e la sua troupe si tuffano nello sgomento della proliferazione degli alimenti e degli oggetti, nella valanga di accessori e prodotti di consumo, esasperando ciò che a loro appare esasperante. Il teatro di García fornisce un’esperienza intensa senza un messaggio esplicito, utilizza e sfrutta le risorse sceniche della materia. Materia opprimente e soffocante, materia priva di senso che porta alla perdita di sé e conduce alla constatazione violenta della spersonalizzazione moderna. Si potrebbe affermare che il teatro di García sia l’equivalente “materialista” del teatro di Ionesco: quello che l’autore de La Cantatrice calva praticava attraverso il linguaggio, García lo esercita mediante gli alimenti. I due procedimenti sono affini. Alla versione linguistica dell’“assurdo”, il regista spagnolo oppone la sua versione fisica. L’assenza di comunicazione espressa da Ionesco con l’impiego dei luoghi comuni diventa in García assenza di comunicazione sotto l’effetto dei cliché mediatici. In entrambi gli autori, infine, la condizione sociale dei personaggi è la stessa, nulla li distingue. Anche se per ragioni diverse, sul palcoscenico si instaura la medesima disfatta, che pone gli spettatori di fronte alla “letteralità” dello smarrimento. La scena mostra, esacerba, ma non interpreta. Il suo impatto è tanto più forte in quanto nulla viene a esplicitarlo o commentarlo: bisogna viverne l’esperienza e, in seguito, trasformarlo in un discorso personale. È il principio di Ionesco e García che, malgrado la distanza temporale e le differenze estetiche, si ritrovano nel rapporto con le risorse del teatro. Il teatro di García ha acquisito un’identità forte e rappresenta una “nuova realtà teatrale” riconoscibile e sempre incisiva. Teatro critico, teatro di contestazione, ma non teatro di spiegazione. García identifica e rappresenta le “mitologie” moderne per criticarne l’effetto devastante sulle fasce medie della società, terreno privilegiato dell’alienazione capitalista.

Árpád  Schilling

Motivazione

(UNGHERIA) Árpád Schilling, nato nel 1974, è una figura emblematica del rinnovamento teatrale nei paesi dell’ex blocco sovietico. Oltre a proporre forme nuove, infatti, l’artista si svincola dalle vecchie strutture per creare la compagnia Kretakor, che gli permette di intraprendere un percorso personale, quello del gruppo che dirige insieme al collega Maté Gaspar. Dopo aver collaborato con il teatro Katona, Schilling si distingue sulla scena europea con un memorabile Baal di Brecht (1998), opera giovanile in cui trova la forza di ribellione, la voglia di distruzione e lo stesso bisogno di vita intensa che caratterizzano la nuova generazione postcomunista. Distribuendo il pubblico intorno allo spazio dell’azione in cui l’eroe brechtiano si abbandona a un combattimento senza pietà, l’autore eleva gli spettatori a testimoni di una rivolta generazionale. Ed è appunto l’emergere di una generazione di ribelli che il giovane artista mette in scena nello spettacolo, al quale invita un pubblico che lo ha appena scoperto. Schilling alterna adattamenti teatrali come il nuovo Michael Kohlhaas di Kleist ad opere come Woyzzeck, tratte soprattutto dal repertorio tedesco.
Ogni volta l’atto teatrale si distingue per momenti di rara forza fisica, veri e propri urli di disperazione di cui la scena, formata da corpi e attrezzerie, fornisce l’indimenticabile materializzazione. I testi classici sono per Schilling l’occasione di fare un teatro che non si dissocia mai dalla condizione personale dell’artista. Artista che, grazie agli attori eccezionali di cui ha saputo circondarsi, attinge alla parte più profonda delle risorse di scena per animare e radicare meglio i testi. Schilling non si accontenta però di restare allo stesso livello e intraprende un percorso originale a partire dalla storia e dalle realtà politiche e umane dell’attuale Ungheria. Stavolta è la dimensione collettiva che viene alla ribalta e noi seguiamo lo sguardo ironico e disincantato con cui Schilling e la sua troupe rappresentano i mutamenti intercorsi, il deterioramento della lingua, la deriva consumistica, gli smarrimenti quotidiani. Teatro di analisi, teatro critico, ma per nulla utopistico: teatro in cui, senza illusioni né orizzonti, si procede all’esplorazione del presente. Schilling opera infine un’altra mutazione tornando ai testi classici, da Il gabbiano ad Amleto, ma per trattarli stavolta con libertà inaudita, come racconti semplici e fondanti affrontati da gruppi ristretti in grado di resuscitarli nel contesto di assemblee particolarmente ridotte. Quasi che il teatro nella sua interezza procedesse da una sorta di “riduzione”, dei testi come dei testimoni. Noi riconosciamo il teatro, ma un teatro privo di qualsiasi orpello, spogliato dei dettagli, teatro che racconta ancora, tra sé, le grandi storie del suo repertorio. Schilling è attualmente impegnato in un nuovo percorso e cerca di realizzare attività che si colleghino a quello che, con un termine enigmatico, chiama “escapologismo”. Ecco un artista che non ha mai smesso di interrogarsi e di rinnovare il teatro a partire da un’esperienza di gruppo animata da un forte investimento autobiografico.

François Tanguy e il Théâtre du Radeau

Motivazione

(FRANCIA) Il nome di François Tanguy, nato nel 1958, resta indissociabile dal Théâtre du Radeau, che si forma nel 1997 e del quale diventa regista nel 1982. A partire dal 1992 la compagnia trova sede alla Fonderie di Le Mans, dove ancor oggi lavora e prosegue la sua straordinaria ricerca fuori dei sentieri battuti, impegnata sulla strada dell’arte nel senso più completo del termine. In questo senso Tanguy si riallaccia al modello del Cricot 2 di Tadeusz Kantor, che influenza fortemente i primi spettacoli della formazione. Non si tratta tuttavia di un epigonismo subalterno, bensì del riconoscimento di una parentela che lega una famiglia di artisti. Ben presto François Tanguy impone la propria visione grazie a Mystère Bouffe (1986), seguito da Jeu de Faust (1987) e Fragments forains (1989). Quello che emerge è un mondo “sotterraneo”, fantasmatico e derisorio – Tanguy manifesta in effetti una predilezione per l’umorismo “filosofico” – in cui i corpi cercano faticosamente di costituirsi e darsi una forma, mentre la lingua si riduce a frammenti e suoni enigmatici. La rivelazione di questo parto difficile affascina fin da subito numerosi spettatori, alcuni dei quali diventeranno presto degli ammiratori incondizionati – peraltro Tanguy non è certo un artista che suscita consensi unanimi. Le silhouette disegnate con tratti grossolani, che farfugliano e si agitano come strani mostri rivelano un universo in formazione, incerto e materialista, segreto e avvincente. È teatro allo stato puro e Tanguy accede allo status di autore, di “écrivain du plateau” nell’accezione di Bruno Tackels. Fin dagli inizi si mostra in grado di elaborare una “nuova realtà” – realtà del palcoscenico, realtà fantasmatica e profondamente nascosta nell’inconscio umano. François Tanguy può e vuole lavorare solamente nell’ambito di una compagnia, esplorandone la realtà umana e artistica. In questo modo riesce ad affermare un’espressione corale particolarmente originale che, come in un’orchestra da camera, preserva la singolarità di ciascun artista pur sprigionando la potenza di un insieme. Insieme sempre al limite della coerenza, pronto a disintegrarsi, in preda a forze centrifughe che, in fin dei conti, non riescono ad avere la meglio. Choral: così si intitola una delle creazioni del Radeau e nessun termine potrebbe qualificare meglio l’identità del lavoro. Tanguy e il Radeau testimoniano il desiderio del cuore e la difficoltà di soddisfarlo: la coralità ottenuta a prezzo di sacrifici e lunghe prove. Una coralità scomoda, sempre sul punto di esplodere, che non ha niente di rassicurante e che anzi mostra la sua fragilità, con tutto ciò che essa comporta di precario, instabile e volubile. Noi seguiamo da vicino le vicende di questo scontro sottile tra l’individuale e il collettivo, equilibrio incerto senza vincitori né vinti. In questi ultimi tempi Tanguy e il Radeau si sono evoluti verso una ricerca particolarmente originale che coinvolge i mutevoli confini del teatro, della pittura e della musica. Les Cantates, (2001), Coda (2004) o Ricercar (2008) attestano questa volontà di lavorare sulla transitività delle arti, sugli slittamenti che generano l’insolito e il poetico, sulla singolarità di un approccio che mette lo spettatore di fronte agli enigmi della notte attraversata dagli echi della musica e dalle persistenze plastiche. Ci ritroviamo riuniti in un “mondo di inizi” – diverso dal “mondo delle origini” del primo periodo – un mondo dell’indifferenziazione, della confusione delle arti, dell’indistinzione degli ambiti. Ed è senz’altro da qui, da questo sguardo sull’indeterminato, che scaturisce l’attrattiva esercitata dal teatro di Tanguy. Da artista avveduto quale è, tuttavia, egli oppone all’enigma notturno di queste erranze di gruppo la banalità delle scene, sempre ridotte ad attrezzerie senza particolari pregi o slanci decorativi. Come se per immergersi nel segreto del mondo non si cercasse la parola arcaica ma il termine corrente. L’elemento che gli appare indispensabile al raggiungimento di questo obiettivo è la lentezza. Come ama ripetere, «una zattera [radeau in francese] avanza lentamente».

RITORNI

(GIUGNO 2009 – nell’ambito dell’Anno Grotowski – Wrocław)

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